Racconti: volume #3

Storie. La grande città è fatta di storie; le storie di tutte le persone che vivono in essa. Storie che nascono, storie che muoiono. Storie che non sono mai esiste e che mai esisteranno. Storie piacevoli e storie dolorose, storie fantastiche e storie noiose. Storie che dureranno frazioni di secondo e storie che dureranno per tutta l’eternità. Storie che forse non hanno senso di esistere. O forse che il loro senso è proprio quello di non esistere. Storie di vita.

A volte le storie nascono dal nulla. Uno sguardo tra sconosciuti che nasconde mille significati, un ragazzo gentile che aiuta una signora ad attraversare la strada, una madre che accompagna i propri figli chiacchierando con un’amica, un poliziotto che dà indicazioni stradali a una coppia di turisti. Impulsi di vita nati in questo oceano di persone, tra il freddo marciapiede e la fretta della gente, destinati a finire chissà dove.

Quante storie da raccontare su queste strade , quante storie da dimenticare tra questi semafori e strisce pedonali. Noi siamo il sangue della città. La nostra vita è muoversi in queste arterie di catrame e cemento. La sua voce è il rumore dei passi sull’asfalto, il clacson delle auto, l’abbaiare di qualche cane. Ma le nostre storie sono la sua anima, il significato della sua esistenza. Il motivo per continuare a vivere.

Storie. Quante storie incontro ogni giorno: alcune le conosco mentre alcune le disprezzo. La maggior parte le ignoro. Storie di vita che nessuno avrà voglia di raccontare. Storie che si perderanno nella grande città. O che forse, molto probabilmente, sono già perse.

La grande città vive e con essa anche la mia storia. La storia della mia vita.

Liberamente ispirata a:

“The Linguist across the seas and the oceans,
A permanent Itinerant is what I;ve chosen.
I find myself in Big City prison, arisen from the vision of man kind.
Designed, to keep me discreetly neatly in the corner,
you’ll find me with the flora and the fauna and the hardship.
Back a yard is where my heart is still I find it hard”

“Lo studioso di linguistica, viaggia per mari ed oceani
un itinerante permanente è quel che ho scelto di essere
mi ritrovo in una prigione metropolitana,
nata dalla visione dell’uomo
programmata per mantenermi discretamente nell’angolo
mi troverai insieme alla flora e alla fauna e alle difficoltà
lontano quasi un chilometro dal mio cuore
e ancora trovo difficile lasciare questa vita metropolitana”

Mattafix: “Big City Live” (2005)

Racconti: volume #2

Il prato sembrava immenso. Il caldo vento dell’Estate attraversava i deboli fusti dell’erba. Lei era adagiata sull’erba, sotto l’ombra del grande albero. Il cielo era privo di nuvole, immerso nel profondo blu. Dalle foglie filtravano i radiosi raggi solari. Fissava il sole. Fissava il sole e pensava a cosa c’era dentro. Fissava il sole e pensava a quanto fosse distante da lei. Fissava il sole e pensava a quanto le sembrasse vicino. Un insetto le camminò dolcemente sopra un braccio. Inizialmente le diede fastidio ma comunque lo lasciò fare. Il solletico iniziale pian pian svani. L’insetto raggiunse le spalle e si fermò. Rimase li per qualche secondo poi, nell’indecisione, decise di tornare nell’oceano di verde che lo circondava. Lei sorrise e chiuse gli occhi. Il sole l’accarezzava con i suoi caldi raggi. I fusti dell’erba la pungevano delicatamente mentre il vento le soffiava in viso. Pensò a quanto fosse bella la vita. Pensò a quel mare di foglie che la circondavano e a alla luce che la faceva risplendere in quella radura. Poi strinse i pugni e ebbe una leggera palpitazione. Il suo respiro divenne leggermente affannoso e iniziò a sudare maggiormente. Ricordò. Ricordò quando l’anno passato era con Lui su quel prato. Quando lui le accarezzava delicatamente i capelli proprio sotto il grande Albero. Ricordò la prima volta che le chiese di uscire. Era cosi imbarazzato che sbagliò addirittura il suo nome. Ricordò i suoi occhi di quel verde azzurro capaci di penetrare nel profondo del cuore. Ricordò anche la sue voce dolce, delicata, fanciullesca. Una voce che si sarebbe indurita e avvilita con il passare degli anni. Ricordò anche le sue mani lisce, delicate, morbide; come quelle di un Angelo. Smise di ricordare e cominciò a fare dei respiri profondi. Ebbe un leggero tremolio e per un attimo le venne la pelle d’oca. Intorno a lei vi erano solo ricordi.

E iniziò a toccarsi.

( Se si è trovato discutibile il finale prima di ogni commento leggere la nota a fine pagina).

Liberamente ispirato al brano:
“I’m not the only one starin’ at the sun
afraid of what you’d find if you took a look inside
not just deaf and dumb I’m staring at the sun”
not the only one who’s happy to go blind”

Non sono l’unico che fissa il sole
Spaventato di cosa potresti trovare se tu dessi un’occhiata dentro
Non solo sordo, sto fissando il sole
Non sono l’unico che è felice di accecarsi”

U2: “Staring ath the Sun” (versione acustica, 2001)

Nota: ero indeciso se mettere nel finale la parola “toccarsi” (ovviamente riferito alla masturbazione) oppure la più politicamente corretta “fantasticare”. Ho Optato per la prima, quella originalmente pensata, poiché non vi è alcun riferimento osceno nel racconto e il termine da solo non pregiudica tutto il resto. Spero di non venir frainteso dato che ho scritto il racconto con le migliori intenzioni e senza in alcun modo voler cadere nel volgare. Anche L’Eros, come tutti i generi, ha un suo fascino …

Racconti: volume #1

Piccola. Era piccolissima. Un puntino nero che si muoveva nella deserta stanza, volando qua e là. Il suo volo era lento, spento, come una foglia ingiallita che lentamente si stacca dall’albero per raggiungere il freddo suolo. Freddo. Nella stanza faceva freddo. Gli spifferi di vento gelido disturbavano la sua poesia costringendola spesso a volare vicino al soffitto. Un ronzio. Nella stanza si udiva solo lo sbattere delle sue minuscole ali, in un piacevole e snervante ronzio. Non aveva più importanza il rumore delle lancette dell’orologio: il tempo non aveva più importanza. Sulla tavola c’era ancora una zuccheriera con dentro qualche cucchiaio di zucchero, poco più a destra un cesto conteneva le ultime pesche raccolte a fine stagione. La mosca lentamente svolazzò sopra la tavola, in una strana danza senza musica, richiamata dall’odore dolciastro del poco zucchero rimasto. Si poggiò lentamente sulla zuccheriera, intimorita da chissà cosa, per poi avvicinarsi ai bordi. Si guardò intorno e vide solo le pareti biancastre della cucina. Rimase per diversi minuti senza far nulla. Come se stesse contemplando il meraviglioso nulla che la circondava.

Stranamente, nel locale era ancora viva una mosca solitaria, nel cuore dell’inverno. Si aggrappava al bordo della zuccheriera, completamente assorta in sé come lo sono gli esseri che hanno vissuto oltre il loro tempo e dovrebbero ormai essere morti.

Liberamente ispirata Bashevis Singer: “Ombre sull’Hudson” (1998).
(Per coloro che non avessero capito la prima parte l’ho scritta io ispirandomi alla citazione …)